Selezione Recensioni 1/6
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“Questi sono in ordine cronologico i giudizi che mi hanno spronata nella mia ricerca e che mi danno anche il coraggio di appendermi a qualche parete” (Anna Ricordi) |
4 giugno 1978 |
da presentazione su catalogo |
Alberto Rocco |
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“Ricordo i primi timidi, affascinanti tentativi di Anna nel mondo della pittura. L’incoscienza caparbia con la quale affrontava soggetti pittorici e difficoltà tecniche che avrebbero spaventato tanti cosiddetti professionisti. Già allora sembrava che la difficilissima operazione del recupero dell’ingenuità infantile da parte di un adulto, una donna colta e per altri versi assolutamente coerente con il suo progresso mentale, si stesse materializzando in una simbiosi mai schiava della maturità. Il suo graduale recupero dal mondo querulo del dilettante a quello ben più mediato del professionista procedeva con sicura determinazione. Con il coraggio del «bimbo incosciente», possibilità e forze latenti, inesplorate, si decantavano nella ostinazione tenace dell’opera dell’autodidatta. Strati misteriosi della sua personalità riuscivano ad emergere in una tecnica che pur progredendo continuava a rimanere personalissima. A riprova del suo talento, il «pessimo» si alternava e si alterna al risolto con un’operazione che continua a stupirmi perché, sempre, la realizzazione del quadro sconvolge i canoni della pittura. Anna ha sempre saputo quello che intimamente già le apparteneva. Il mondo è lo stesso, lucidamente coerente: la volontà precisa di rivivere i luoghi, gli istanti, il tempo trascorso. Coerenza che non ha mai tradito, mondo che non ha mai abbandonato. Gli interni, le nature morte, i paesaggi, di lettura apparentemente elegiaca, sono tutti però intrisi dello stesso animismo. La risoluzione formale mi lascia perplesso, la materia pittorica sempre stupefatto; le ocre, i rosa perlacei, gli argenti riflessi dei suoi bianchi, la sua sensibilità coloristica mi convincono. Le intuizioni sono diventate precisa volontà, il coraggioso tirocinio del dilettante è finito; il dominio della tecnica non ha sconfitto il «bimbo incosciente». |
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4 giugno 1978 |
da presentazione su catalogo |
Francesco Tabusso |
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“Questi quadri sono molto interessanti e singolari, sono al di là della pittura, creano un mondo onirico, di poesia. Gli oggetti hanno una luce che non si sa da dove arrivi perché è una luce interna. Da un certo punto di vista sarebbero tutti sbagliati eppure tutto armonizza: «la forza di questi quadri è il mondo magico che creano»”. |
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Selezione Recensioni 2/6
4 giugno 1978 |
da presentazione su catalogo |
Piero Ruggeri |
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“Credere alla corrispondenza di ciò che si vede e ciò che si sente, fra quello che esiste intorno a noi e quello che noi viviamo interiormente e facciamo in risposta al messaggio della vita; e farne impegno. Dunque le terre, i colori delle tue colline albesi, gli interni che al filtro trapassano in antiche trepide figurazioni del ricordo. Così un battito lieve come un fremito di linfe che scorrono sotto la pelle dei prati, il sommesso luccicare al di là dell’intelaiatura delle finestre, una leggerezza dorata, un’interiorizzazione in luce dell’angoscia, un passare di nuvole che si dilatano a una grandezza di respiro, come se fosse la terra che respiri all’alba e il cielo all’ora del crepuscolo. Camere calde di amori estenuati, come immerse in atmosfere rarefatte, la vita che si rivela anonima e misteriosa nell’inatteso bloccarsi di una scena quotidiana improvvisamente illuminata da un bagliore fantastico. Il mondo dei riflessi emotivi destati dalle sensazioni, acuite, esasperate dall’eco interiore. E pian piano questo ambiente ovattato, morbido, squisitamente velenoso di umori segreti, di compiacimenti, si apre ad una realtà integralmente investita dalla luce piena di un giorno senza più schermi. Luce che rivela un’intensità panica, inebriante sino ai deliri della fantasia e del miraggio, in un filtro che rivela la filigrana segreta delle cose, la loro fragilità e inquietudine, la loro ansiosa grazia da «paradiso perduto» e irraggiungibile. In questi brulicanti barbaglii di pulviscolo luminoso, gli oggetti, gli ambienti prendono dimensioni fantastiche, sembrano sciogliersi talora per troppa maturazione in succhi e polpe squisitamente bacati, in una gioia e in una continua lotta con la loro stessa morte. Una «follia felicità» troppo piena, come un cielo che un’ombra minacci continua, un mondo di riflessi, di tremiti, di presenze magiche e normali insieme, un mondo che si svela ad una «Alice» al di là degli specchi, al di là dei cristalli, sotto il pelo dell’acqua, e al di là della trama degli alberi e dei fiori. E volti incombenti, deformati, nell’impossibilità di una vera messa fuoco per il loro essere d’improvviso entrati nel campo della visione, così come non più cancellabili dalla coscienza. Personaggi riassorbiti nella pasta emozionale e germinante del colore, ospiti segreti che condizionano e determinano il significato poetico dell’interno. Il colore si espande poi come velato da un’atmosfera piovosa, come un cielo al crepuscolo che non più si infiammi ma che si consumi lento. Tu racconti questo con impegno costante, in uno spettacolo magico e assurdo, con attori un po’ imbambolati e spaesati in un Eden non loro ma ospiti di passaggio, con luci che fermentano dentro spessori lacerati e stirati, da caleidoscopio. Per te potrebbe tutto ciò essere forse solo evasione, ma quando questo impegno si ritrova nella vita, quando è esercizio sfibrante nella tua solitudine del credere, allora l’immagine e l’impegno acquistano una sostanza piena di tempo che trascorre. Allora non è più solo evasione. Così io ti vedo - Anna - nella trasfigurazione dei tuoi interni, negli oggetti, testimone troppo saggia, cosciente, sorridente di te e delle tue debolezze, in un gioco di fragili riflessi. Sembra che, attonita, tu tenti di dare un simbolo a questa nostra fugace, inquinata ma pur sempre bella luce della vita. |
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Selezione Recensioni 3/6
ottobre 1978 |
da «Coinema e
Icona» vol.32 del Saggiatore p.166 e segg. |
Franco Fornari |
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… Fin dal tempo delle caverne del paleolitico la riproduzione degli oggetti del mondo non è mai stata una mera operazione reverenziale. Da sempre la riproduzione artistica degli oggetti del mondo è stata al servizio della loro sopravvivenza in un altro mondo. Così non solo noi dobbiamo gran parte della conservazione degli oggetti artistici al loro aver accompagnato gli uomini nel regno della morte, ma anche al fatto che il rito funerario era alla base della loro stessa riproduzione, in quanto nascevano come ela borazione nostalgica del lutto degli oggetti che gli uomini, morendo, dovevano abbandonare. Pertanto l’oggetto artistico non solo sta al posto di qualcos’altro per qualcuno, ma assolve tale funzione in quanto il qualcos’altro del quale sta al posto è oggetto transustanziato di desiderio: oggetto buono da ricuperare o oggetto cattivo da scongiurare attraverso qualcosa che lo rappresenti. Così le «burnìe» e gli «interni» di Anna Ricordi non presentano solo se stessi, ma anche la «presenza di chi le ha toccate».
Ed è questa presenza transustanziata che rende gli «oggetti» di Anna Ricordi attraversati da «malìa». Essi in tal modo evocano qualcosa, che è al di fuori dal quadro, e da cui ricevono un’anima, che non si vede, ma che c’è, e che di fatto è un’anima coinemica: come se le mani che hanno toccato le «burnìe» o custodito gli arredi avessero nascostamente ordinato: «Dipingerai le cose in memoria di noi che le abbiamo ordinate»; sì che la loro comunicazione diventasse comunione. Così non un singolo oggetto, ma tutto l’universo degli oggetti dipinti da tutti i pittori, l’universo figurale e quello non figurale, possono diventare espressione di una elaborazione nostalgica o apotropaica del lutto. Al di là delle forme con le quali si presentano le «burnìe» e gli arredi non solo presentificano le mani che le hanno toccate, ma sono esse stesse attraversate a livello cinemico, da presenze assenti, che si collocano in consonanza semantica con le presenze materne di cui sono l’evocazione. Il farsi carne del ricordo non è più qui solo una metafora: diventa uno specifico transfert, nel senso pieno che la parola ha nella psicoanalisi. Le «burnìe» non sono solo state toccate da mani materne, che coscientemente Anna Ricordi vuole evocare nel rito degli affetti; sono in realtà, esse stesse, a livello coinemico, contenitori materni, così come possono essere letti come contenitori materni gli «interni» nei quali vengono collocati gli arredi soffusi di magìa, nei quali la presenza dei tessuti lavorati a mano da generazioni di donne, assumono la funzione del coinema «madre», sul modello della coperta di Linus. In questo caso la presenza materna non sarebbe però stata trovata già fatta, ma sarebbe stata prodotta e riprodotta dalle generazioni di donne e dalla pittura di Anna Ricordi, in un succedersi di contenitori materni dentro contenitori materni, nella scansione spazio-temporale della vicenda di una matrioska. La convergenza tra la nostalgia della figura materna che li ha accuditi e il simbolo materno che sottende (a livello coinemico) gli oggetti dipinti, dà alla rievocazione nostalgica della madre la concretezza di un discorso nel quale la pregnanza del rapporto tra significanti e significati porta ad una consonanza semantica tra il rimpianto di una presenza d’amore perduta (il desiderio di ritrovarsi in un contenitore materno) e la rappresentazione di oggetti nei quali il coinema madre è transustanziato, identificabile sotto forma di contenitore di frutti bambini (burnìe), o di arredi-bambini dentro il corpo roseo o rosso della madre (interni). Così la elaborazione transustanziale del lutto va al di là delle intenzioni del singolo pittore per coinvolgere il divenire storico della creazione artistica in generale, fino a coinvolgere il lutto dell’arte stessa. Può diventare il punto di partenza per un paradigma attraverso il quale comprendere la singolare avventura dell’arte moderna come elaborazione del lutto dal quale è travagliata.
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Selezione Recensioni 4/6
21 gennaio 1979
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da «La Stampa» |
Angelo Dragone |
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Anna Ricordi (pseudonimo d’una giovane senza dubbio dotata) sa evidentemente fare della cultura qualcosa di essenzialmente suo, trasformando l’immediata sensazione d’una immagine vista in una realtà squisitamente fantasticata. |
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26 gennaio 1979
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da «La Gazzetta del Popolo» |
Luigi Carluccio |
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Una volta fatto il giro della mostra ci si può forse accorgere che resta addosso appiccicato una sorta di incanto al quale partecipano in diversa misura, e con diversa espressione tutti i dieci espositori. Qualcosa che è difficile definire: forse una certa disponibilità all’energia occulta delle cose, al sortilegio di certe situazioni, alle presenze che non sempre è possibile coagulare sia pure in fragili fantasmi e tuttavia esercitano una grande forza di attrazione, e premono, e incalzano, e chiedono il dialogo. Qualcosa che abita, insieme con profondi silenzi, il caldo spessore della luce che lega l’uno all’altro gli oggetti in una stanza o su un tavolo nella pittura di Anna Ricordi. |
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27 gennaio 1979 |
da «Avvenire» |
Franco Prestipino |
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Materia per riflessioni e confronti offrono i quadri di Anna Ricordi, che rivive in modo intelligente un’antica lezione. |
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15 luglio 1979
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da verbale di giuria |
Luigi Carluccio |
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«Un discorso pittorico volto a chiarire i concetti del recupero in atto dei valori più autentici della pittura. Preziosità ed amore si appaiano e coagulano una materia arcana, vibrante e ricca che coinvolge il vaso d’opale, i frutti e le cose, pacatamente vive». |
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20 luglio 1979
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da «La Sesia» |
Mario Pistono |
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Gli oggetti sono come accarezzati, vellutati da una personale interpretazione della tecnica divisionista: il vaso, la ciotola, il gran piatto della frutta tagliata presentano le credenziali di una autrice che attraverso la vibrazione di una materia viva penetrata da barbagli di luce frammisti ad iridescenti cromie, introduce chi guarda in una appartata ambientazione intimistico-fantastica. |
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26 settembre 1979 |
da «La Gazzetta del Popolo» |
Franco Fornari |
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… Ho inteso mostrare che tutta l’arte moderna, interrogata sullo sfondo del furore distruttivo che l’accompagna, appare animata da due fondamentali direttive che ho chiamato elaborazione nostalgica ed elaborazione persecutoria del lutto. Alcuni pittori, come ad esempio Anna Ricordi, vivono la loro pittura come nostalgia della stessa intenzione cosciente che li spinge a ricostituire oggetti perduti. |
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Selezione Recensioni 5/6
febbraio 1988
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da presentazione su catalogo |
Cesare Musatti |
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Nel 1930 c’erano in Italia due soli percettologi: il che vuol dire psicologi impegnati nello studio sperimentale dei processi percettivi, ed in specie di quelli della visione. Uno era Rudolph Arnheim, che dopo essere stato a Berlino allievo della scuola della Gestalt, era venuto a Roma, con una borsa di studio del nostro “Consiglio Nazionale delle Ricerche”. L’altro ero io, professore di psicologia all’Università di Padova, già allievo di Vittorio Benussi, e – attraverso lui – della scuola Gegenstandstheorie di Graz. Al di là di questa differenza di scuole (che col tempo si venne progressivamente attenuando) conducevamo ricerche analoghe. Nel corso degli anni però, il nostro è stato un diverso destino. Arnheim, recatosi in Inghilterra e poi negli Stati Uniti, partendo dallo studio dei fenomeni della visione, è assurto alla posizione di principe della moderna critica d’arte. Mentre io, attratto da altri campi della ricerca psicologica, soltanto in modo saltuario e comunque assai modesto, mi sono occupato di qualche artista. Sempre tuttavia come semplice percettologo per la osservazione di particolari effetti di disegno o di colore, e senza pretesa di varcare tali limiti. Ed eccomi ora chiamato ad esprimere qualche osservazione su questa nuova collezione di quadri di Anna Ricordi. La
prima impressione riguarda una particolare preferenza per determinate forme:
vasi cilindrici e tavolini circolari. Tavolini molti, ma sempre circolari
dunque (le rare eccezioni sembrano fatte apposta per indicare che i veri
tavolini debbono essere rotondi).
Tali forme, vedute di lato, presentano una ovvia caratteristica. L’illuminazione –pure essa laterale- non può essere omogenea. Vi è sempre un punto, o meglio un asse verticale, massimamente illuminato, ed un digradare della luminosità, fino a quando la luce diviene tangenziale. Proprio questo digradare della luce determina la rotondità del corpo. L’arte del produrre tale impressione di rotondità (del tondeggiare viene fatto di dire), non è, in questa pittrice, frutto di calcoli o di studi specifici, ma qualche cosa di assolutamente spontaneo. In tale modo si può anche verificare, in chi osserva uno strano fenomeno. Non in tutte le opere, ma in qualcuna, dove la rotondità risulta particolarmente evidente, accade –o per lo meno è accaduto a me- di rimanere vittima di una illusione. Spostandomi lateralmente, da una o dall’altra parte, ho avuto chiara l’impressione che, sulla superficie cilindrica, il “luogo” (e più precisamente, per forme cilindriche, la linea verticale) di massima illuminazione si spostasse, così da seguire, il mio stesso movimento. Ciò corrisponde a quanto accade nella realtà per un corpo cilindrico illuminato lateralmente. Ma in un dipinto invece, qualsiasi spostamento dovrebbe essere assolutamente impossibile. Si deve allora ritenere che questa impressione derivi dal fatto che in questi quadri la rotondità è resa in modo così pregnante e realistico, da indurre l’illusione di un movimento, o spostamento della luce, come tale del tutto inesistente. L’illusione è analoga a quella realizzata in dati dipinti che riproducono un volto umano: con gli occhi che sembrano fissare sempre chi guarda, anche quando l’osservatore si sposta lateralmente in un senso o nell’altro. L’illusione, in quest’ultimo caso, si spiega tuttavia in modo molto più semplice. Non gli occhi si muovono, ma per così dire lo sguardo della persona ritratta. Lo sguardo: e cioè qualche cosa di ricostruito, o indovinato, da chi osserva, ma non un elemento specificamente dipinto. |
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Selezione Recensioni 6/6
Continua |
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febbraio 1988 |
da presentazione su catalogo |
Cesare Musatti |
Anche la fotografia scattata mentre una persona fissa l’apparecchio fotografico, dà l’impressione che, nella immagine, il soggetto segua, con lo sguardo, gli spostamenti di chi osserva. Mi sono soffermato su questa predilezione per le forme rotonde, e per quest’arte del tondeggiare, con tutti gli effetti conseguenti, perché si tratta di aspetti di particolare rilevanza. Sembra però a me che, in via generale, si possa per questa produzione pittorica, parlare di una specifica sensibilità per tutte le caratteristiche della spazialità. Così nei quadri con specchi, con molti specchi. Pure qui gli effetti ottenuti sembrano il frutto di complicati ragionamenti geometrici, mentre sono il prodotto di una pittura spontanea, sorretta da una naturale “sensibilità” per i caratteri dello spazio.
Molti altri elementi meriterebbero di essere commentati e menzionati per questo modo di dipingere. La scelta ad esempio degli oggetti nella loro collocazione spaziale. Cose minute e minuzie nelle cose: come in quei merletti o negli altri tessuti (o pluri-tessuti, viene voglia di dire) collocati sui tavolini rotondi. Dopo essersi soffermato su questo genere di quadri, uno sarebbe indotto a pensare: “Ecco un’artista molto brava, che si dedica a nature morte”. Ma
c’è allora una sorpresa: una serie di ritratti
che sembrano riferirsi a persone di conoscenza o comunque a persone viventi:
ritratti parlanti. Ed altri ancora con deformazioni e alterazioni dei lineamenti, invece, tali da sembrare dovuti ad un certo piacere che la pittrice trarrebbe dallo “strapazzare” i volti. Non caricature, ma piuttosto facce sulle quali è esercitata (ma da chi poi, se non dalla pittrice stessa?) una specie di violenza. Qui però rischio di non essere più un percettologo. E che venga fuori lo psicoanalista indotto a cogliere dovunque oscuri significati e segrete motivazioni. E perciò mi fermo. Ringraziando però la pittrice per il piacere che ci dà la contemplazione dei suoi quadri. |